Conservazione della biodiversità
e giustizia sociale
e giustizia sociale
Il continente africano si distingue per una biodiversità unica al mondo: un patrimonio floristico e faunistico insostituibile, fondamentale per gli equilibri ecologici sia del continente che del pianeta. Da nord a sud, da est a ovest, l’Africa è un mosaico di ecosistemi straordinari che, da secoli, vivono in simbiosi con le popolazioni locali. Dalle savane del Serengeti alla foresta pluviale del bacino del Congo, fino alla ricchezza insulare del Madagascar – caratterizzato da circa il 90% di specie endemiche – si manifesta un intreccio antico tra natura e uomo, tra il non-umano e le pratiche delle comunità locali. Comunità che, in molti casi, non vivono semplicemente in questi ambienti ma ne sono parte integrante.
Un rapporto, questo, che nulla ha a che vedere con la concezione occidentale del dualismo natura-cultura, che, seppur superata da risvolti scientifici – resta ancora salda nel senso comune.
Tuttavia, questa straordinaria ricchezza è oggi minacciata da molteplici pressioni, sia di origine antropica sia naturale, che mettono a rischio l’integrità degli ecosistemi. Il cambiamento climatico, la deforestazione, l’espansione dell’agricoltura industriale e l’estrazione mineraria rappresentano solo alcune delle principali minacce alla biodiversità africana e globale.
Per contrastare tali minacce, sin dai primi decenni del XX secolo sono state applicate diverse strategie di conservazione della biodiversità, talvolta con esiti positivi per alcune specie animali e vegetali. Tuttavia, spesso questi modelli sono stati implementati a discapito delle comunità locali, generando espulsioni, marginalizzazione e conflitti sociali. Ciò è frutto di una visione profondamente radicata nel colonialismo e nell’eurocentrismo.
Survival International, ONG che difende i diritti delle comunità indigene nel mondo proteggendo le loro vite e le loro terre, definisce fallimentari le strategie di conservazione che espropriano, culturalmente e territorialmente, le comunità locali in un atto che essi stesse definiscono “genocidio verde” (green genocide).
Per decenni, il paradigma dominante in Africa è stato quello della fortress conservation, ovvero un modello in cui la natura è considerata “pura” solo se separata dall’uomo. Questo ha portato alla creazione di aree protette da cui le comunità locali sono spesso state escluse con la forza, innescando gravi violazioni dei diritti umani e ottenendo, peraltro, risultati discutibili sul piano della tutela ambientale.
La militarizzazione dei territori, l’istituzione di parchi “intoccabili”, la repressione dei saperi tradizionali e la narrazione che ritrae le comunità locali come “nemiche della natura” ignorano volutamente secoli di convivenza tra uomo e ambiente, alimentando logiche di dominio e profitto.
La conservazione della biodiversità – in Africa come altrove – non può essere separata dalla giustizia sociale. I modelli escludenti e imposti dall’esterno, senza il consenso delle comunità locali, si sono rivelati non solo inefficaci, ma spesso hanno anche prodotto danni profondi e irreparabili.
È tempo di riconoscere che le popolazioni locali non sono nemiche della natura, bensì alleate fondamentali per la sua tutela. Restituire voce, diritti e potere a chi vive e si prende cura dei propri territori è il primo passo verso una conservazione realmente efficace, giusta e duratura.